Autodeterminazione frocia. Oltre la logica dei campi contrapposti.

Le soggettività minoritarie, e tra queste quelle queer, sono sempre state utilizzate nelle politiche statali o religiose nell’ambito della creazione di un nemico. In tempi più recenti stiamo assistendo a un fenomeno diverso. Negli ultimi anni, alcuni governi che pure in passato più o meno lontano hanno perseguito politiche di repressione diretta ed esplicita delle persone queer, sono passati a politiche di assimilazione e sussunzione nel sistema. Il risultato è che alle pratiche omofobe – che nella società non sono affatto diminuite – si affiancano politiche di “tolleranza” con lo scopo di depotenziare le lotte LGBTQIA+ e ricondurle a una dimensione in cui siano utili al mantenimento dello status quo. Programmi di integrazione, il diversity management, gli sponsor aziendali alle manifestazioni per l’orgoglio LGBTQIA+, i patrocini pelosi di istituzioni e autorità, per non parlare della presenza organizzata di associazioni di polizia dentro i cortei sono tutti riassunti nel termine “rainbow washing”.

Sicuramente alcune battaglie per la concessione di diritti soggettivi, benché siano delle battaglie parziali, hanno la potenzialità di migliorare le condizioni materiali di vita di molte persone; tuttavia le concessioni vanno sempre viste come punto di partenza per altre e ulteriori rivendicazioni, e non come “vittorie” da condividere con gratitudine con la politica istituzionale.

In questo schema si inserisce la benevolenza ostentata in modo paternalistico da partiti e governi nei confronti delle frocie. Ogni concessione nei nostri confronti, o anche semplicemente la tolleranza della nostra esistenza in quanto minus habentes, vengono ostentate dai governi e anche da parti politiche tradizionalmente opposte alla autodeterminazione dei corpi, come segni di una superiorità morale e maturità politica utilissima ad accreditarsi in alcuni scenari politici. Mi riferisco, ad esempio, alla spesso sorprendente “concessione” di tenere parate LGBT nelle capitali di stati decisamente omofobi, in momenti in cui quei governi avevano bisogno di mostrare un volto “decente”, magari nell’ambito di una procedura di ingresso nell’Unione Europea…

Ma ogni stato che abbia intrapreso una missione imperialista, ha sempre dovuto ricostruirsi come civilizzato e civilizzatore, e portatore di valori mitici di “progresso”: in questo modo è stato possibile armare gli eserciti da inviare in geografie remote e “altre”, che nel progetto imperiale vengono rappresentate come popolate da barbari da moralizzare e popoli “bambini” da educare e convertire. La colonizzazione è quindi quasi un favore che viene fatto ai popoli indigeni, e la missione civilizzatrice un “fardello” per l’uomo bianco. In questo gioca oggi un ruolo fondamentale il rainbow washing, ma in realtà la strada della strumentalizzazione è a doppio senso: la Russia di Putin e i suoi satelliti, assieme alle destre populiste un po’ ovunque fanno abbondante uso dello spauracchio della teoria gender come significante di un mondo depravato, contrapposto alla propria sana morale nazionale, costruendo il nemico sullo sfondo di un’epica battaglia di civiltà.

Già dalle prime battute di questa fase del conflitto in Ucraina sono state diffuse immagini propagandistiche delle cosiddette “Brigate unicorno”, (in realtà si tratta di singole persone LGBTQIA+ che indossano un distintivo particolare sull’uniforme dell’esercito regolare) anche se sappiamo che – dopo una campagna elettorale tutta rivolta all’”europeizzazione” dell’Ucraina – dei parlamentari del partito di Zelensky hanno depositato proposte di legge di stampo omofobo, non lontanissime dalla nota legge contro la propaganda LGBTQIA+ russa.

Anche Israele, ormai da molto più tempo ostenta una mentalità particolarmente aperta, presentando Tel Aviv come un’oasi di benessere LGBTQIA+, aggiungendo così un pezzo molto grande al mito dell’”unica democrazia del medioriente”, mentre contemporaneamente mantiene al suo interno componenti religiose fondamentaliste, i cui elementi si sono anche resi responsabili di attacchi ed omicidi di persone LGBTQIA+ e che hanno sempre avuto un ruolo determinante nei giochi di potere dei governi. Recentemente la macabra immagine della bandiera rainbow esposta sulle macerie di Gaza ha giustamente fatto inorridire moltissime persone in tutto il mondo, anche se mi chiedo non fosse altro che un’ulteriore umiliazione più che una pretesa “liberazione”.

Le esistenze queer sono quindi tirate in mezzo anche con valori polarmente opposti, ma sempre al di sopra del volere delle persone, e per fini che poco hanno a che fare con la loro emancipazione. Ma lo scenario è più complesso, in un intreccio di nazionalismi ed interessi capitalistici in cui le voci delle persone che in questo momento sono vittime dei conflitti, e pure vorrebbero mettere in campo una loro lotta specifica sono perdute nella logica degli schieramenti. Per alcune persone queer in Ucraina, lottare contro la Russia significa lottare per la sopravvivenza come queer, e identificano la loro lotta con la guerra in corso. Il Kiev Pride, recentemente tenutosi in condizioni difficilissime, aveva tra le sue richieste – oltre a maggiori tutele legali e il matrimonio egualitario – anche l’aumento di armamenti all’esercito.

A Gaza, territorio in cui l’omosessualità è ancora bandita per legge, le persone queer vivono la doppia oppressione dell’essere governate da un’autorità religiosa fondamentalista profondamente omofoba, e di essere all’interno di un violento stato di occupazione, che in questa fase ha un obiettivo dichiaratamente di sterminio. È veramente difficile prefigurare uno scenario in qualche modo positivo per loro.

Ed è quindi a tutte le persone che vivono l’oppressione di genere che va la nostra solidarietà di queer anarchich*, alla loro lotta per la sopravvivenza e per l’autodeterminazione, senza voler indicare loro la strada, ma neanche risparmiando critiche ad Hamas ed ai suoi alleati: non farlo significa rafforzare le strutture di oppressione in essere. Ovviamente questo non vuol dire imporre a nessuno di rinunciare alle proprie tradizioni, credenze e pratiche individuali e collettive, che a Gaza come nella diaspora hanno un ruolo importantissimo nell’identità di molte persone. Né significa imporre il nostro punto di vista sul genere e la sessualità, mentre sappiamo che in società non occidentali ci sono e ci sono stati modelli di identità e ruoli di genere diverse dalle nostre, peraltro regolarmente represse dai governi coloniali.

Se nel movimento si affermerà l’idea che qualsiasi atto posto in essere in una situazione di “resistenza all’oppressore” sia giustificato si apriranno le porte a pericolosissime derive nel caso di degenerazione ulteriore del conflitto. Molti elementi purtroppo preferiscono di gran lunga dimostrare la loro solidarietà alla Palestina marciando in piazza sotto la bandiera iraniana piuttosto che sotto quella rainbow. Usiamo piuttosto il nostro privilegio se non altro per dare voce e per offrire una visione alternativa che proprio perché non ci troviamo nel pieno di un conflitto ci è possibile vedere. La voce transfemminista queer può essere la più prorompente, perché da sempre è in grado di rompere i costrutti statuali, religiosi e del costume; non lasciamo i nostri simboli e le nostre rivendicazioni nelle mani dei guerrafondai, e non lasciamo a nessun politicante mano libera nel fare giochi di potere al di sopra delle nostre teste. La bandiera rainbow e la queerness vanno rivendicate dalle persone queer in un’ottica di liberazione totale e di lotta di classe, strappandole a stati, eserciti, e a chiunque ci voglia costruire sopra delle patrie da difendere.

Non dimentichiamo che l’oppressione sulla base della classe e del genere non conosce confini, e che ci sono persone oppresse, dissident* e disertr* anche in Israele e in Russia. È ai dissidenti tutti che va la nostra solidarietà di persone queer anarchiche, oltre ogni logica di campo.

Julissa

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